Anatra

Racconto inedito

Fu amore a prima vista.

Non appena la vidi ne fui conquistato. Che dico. Rapito. Soggiogato.

L’anitra doveva essere mia. A tutti i costi.

Era come avevo immaginato, sognato, pensato che dovesse essere un’anitra.

L’occhio tondo con la pupilla piccola di un blu cupo come la profondità dell’oceano, conferiva un’intensità vibrante allo sguardo che sembrava fiutare il vento attraverso gli itinerari celesti.

Il collo affusolato sfumava in maniera impercettibile dal blu di Prussia delle piume vivide attorno al capo elegante, sino a perdersi nel giallo-oro di un anello che cingeva tutto intorno l’attacco al capo affusolato.

Pronta per planare su boschi e colline, per sorvolare mari procellosi e montagne senza fine, per affrontare temporali e vortici di vento l’anitra era lì e mi guardava. Può sembrare banale o persino infantile, se volete, ma in quel momento ero sicuro che l’anitra mi sorridesse.

Non certo un sorriso ampio, totale e che può diventare alla fine sguaiato, non adatto ad un soggetto così nobile ed elegante. Ma un sorriso complice, appena accennato. Un inizio di sorriso capace di affermarsi come la premessa, l’inizio, l’avvio, l’incipit. Si potrebbe dire con verosimile capacità di affermare il vero. Di un rapporto di un legame più profondo.

L’anitra mi sorrideva.

Ed io sapevo che si trattava di un segnale, il primo atto di un codice segreto, di un’intesa salda che si era già stabilita tra noi al primo sguardo non  appena l’avevo vista.

Questo feeling, che mi gratificava più di quanto mai avessi potuto supporre, fu interrotto bruscamente dall’intervento del Venditore che con il suo atteggiamento subito mi irritò. C’erano nel suo modo di fare, una falsa, subdola accettazione del suo ruolo, quello appunto del Venditore nei miei confronti. Per lui, nella sua insana psicologia, dovevo interpretare l’altro capo del sistema, quello dell’acquirente.

La mia irritazione subitanea, immediata, quasi una reazione chimica, una specie di disagio fisico, crebbe a dismisura quando il Venditore, con tono che voleva essere mellifluo ma che a me appariva disgustoso, disse: “Il signore è forse interessato a qualcosa di particolare?”.

L’interrogativo mi indispettì non poco. Era come se il mio interlocutore non mi avesse considerato sufficientemente per cui poteva permettersi con me il gioco del gatto e del topo.

Senza dubbio lui si era assunto il ruolo del Gatto.

A me di conseguenza toccava il ruolo del Topo.

E da che mondo è mondo, come si dice, il Gatto mangia il Topo. Giustissimo. Verissimo. Ma se il Topo si fosse rivelato poi più furbo, più astuto, più intelligente del Gatto?

Allora sì che il gioco sarebbe stato interessante.

Quasi mi avesse letto nel pensiero il Venditore-Gatto fece un’altra mossa che secondo lui doveva essere decisiva. Nel senso che avrebbe dato al nostro rapporto una impronta come lui aveva pensato che dovesse essere.

“Posso suggerirle qualcosa? Signore…”.

L’ultima parola: Signore era stata pronunciata dopo una breve pausa dalla prima frase.

E mi parve di cogliere nel tono con il quale era stata pronunciata la parola: Signore, un che di ironico. Un tentativo di presa in giro. Nel mio intimo decisi che doveva essere respinto a tutti i costi.

Mi preparai così ad una risposta a muso duro, come si dice. Subito dopo però mi venne in mente che, se avessi mostrato irritazione o peggio se fossi apparso risentito o peggio offeso, avrei favorito il mio interlocutore. Invece dovevo mantenermi calmo. E questo voleva anche dire che mi sentivo ed in effetti ero superiore a lui.

Così, mi preparai con un tono che doveva essere disinvolto, distaccato. Come quando in una scena teatrale l’attore giovane deve solo dire: “La cena è servita”, e quieto senza enfasi, senza sottolineature perché è una battuta che non ha alcun valore, nessun senso nell’insieme della vicenda che gli altri attori stanno interpretando, essi sì responsabili di amori, di odio, sostenitori logici o appassionati di parole e di gesti, quindi di sentimenti, rivolto al mio interlocutore dissi: “Mi interessa forse un’anitra”.

Mentre proferivo queste che mi parevano innocenti, quindi non importanti perché senza indicazione alcuna, diedi uno sguardo di sottecchi alla mia anitra dal collo blu e dall’occhio tondo e vivido. E mi parve ancora più bella.

Il Venditore-Gatto mi sembrò leggermente sconcertato dalla mia uscita, dalla mia battuta detta così, con l’aria di niente.

Capii che il mio atteggiamento lo aveva sorpreso. E la sorpresa gli aveva creato disagio e forse anche disappunto.

Intanto, perché non aveva previsto la mia uscita. Ed era un’ipotesi possibile.

Poi, in quanto la mia sensazione spostava i termini del rapporto che si stava instaurando tra lui e me, tra il Venditore-Gatto e il Compratore-Topo e rinviava il tutto a una conclusione che per il momento non si intravedeva.

La reazione fu immediata.

Il tono era ancora subdolo, mellifluo. Voleva essere accattivante ma riusciva mieloso e mi pareva sinceramente insopportabile.

“Forse, il signore ha in mente un’anitra in particolare?”.

Sobbalzai dentro di me per il modo diretto con il quale era riuscito a capire le mie intenzioni ma soprattutto perché aveva mirato dritto allo scopo.

Naturalmente non diedi in alcun modo l’impressione di essere in difficoltà. Guai se lo avessi fatto. Sarei stato sicuramente alla sua mercé. E questo non potevo accettarlo per nessuna ragione.

Prima di rispondere guardai attentamente il mio interlocutore. Il mio voleva anche essere un atteggiamento di sfida. Equivaleva a fargli sapere: benissimo, tu hai capito quello che voglio. Ma sono sempre io a condurre la danza. Quindi il gioco lo gestisco io.

I capelli impomatati e lisci erano sicuramente tinti. Lo si arguiva da alcune sfumature che mischiavano un osceno color rossastro sino al nero delle ciocche lungo il collo. Anche i affetti che volevano essere civettuoli ma non lo erano perché troppo folti, erano tinti. Dunque, l’uomo si tingeva i capelli e i baffi. Perché?

Per un attimo mi venne da sorridere all’idea che il mio interlocutore ogni mattina, dopo essersi lavati i denti e sciacquata la bocca con qualche gargarismo, poi si accingeva a tingere i capelli ed i baffi.

Come si svolgeva l’operazione?

Adoperava forse uno spazzolino? Magari da unghie per i capelli e da denti per i baffi? E poi, che tipo di tintura adoperava? Una idea mi folgorò come un bagliore improvviso. Forse, usava il lucido da scarpe. Ma certo. Era proprio il tipo che usa il lucido da scarpe, come si fa per i cavalli bolsi nelle fiere paesane.

Ma certo. E come mai non ci avevo pensato prima? Ecco chi era il Venditore-Gatto.

Un mercante di cavalli.

Un mercante di cavalli magari rubati come fanno gli zingari e poi li trasformano di tutto punto con le magagne più inverosimili. E truccano i denti, l’andatura, la posizione eretta della testa, le orecchie dritte.

Un venditore di cavalli che voleva misurarsi con me. Si sarebbe visto come finiva il tutto.

L’interlocutore era lì, in attesa della mia risposta.

Decisi allora di giocare anch’io di rimessa, come si dice.

Avrei portato una stoccata dritta al bersaglio grosso come se si fosse trattato di un incontro di scherma. Niente finte ma una parata di terza e poi via al petto.

Forte di questa consapevolezza dissi tutto di un fiato: “Mi piacerebbe dare un’occhiata da vicino a quell’anitra”.

E con il braccio teso indicai la mia anitra.

L’uomo si avvicinò. Rimase un istante ad osservarla. Poi la prese con la grande mano ornata di anelli. L’afferrò tutta nel corpo agile e me la portò.

“E’ una delle più belle”, disse… “Il signore, aggiunse, ha molto buon gusto”.

E sorrise mettendo in mostra una fila di denti di color marrone. Forse l’uomo masticava tabacco.

Afferrai a mia volta l’anitra. La guardai con amoroso interesse e con compiaciuta soddisfazione.

Dopo il collo blu che finiva nell’anello giallo-oro, le piume delicate del corpo tondo ma dal profilo aerodinamico, assumevano un colore grigio variegato sino al bianco.

Un nitore che si ritrovava nelle ali che partivano dalle giunture del corpo come un prolungamento essenziale e necessitato. Destinato a segnare lì quella dimensione e in nessun’altra, il confine tra il moto e la stasi. Tra l’essere immoto nell’attesa del volo liberatorio e il primo alito di vento che preannunciava le piogge dell’autunno, il tempo di migrare.

L’anitra era mia.

La carezzavo. La palpavo. La sentivo vibrare nelle fibre più intime.

Avrei voluto che fosse durato più a lungo possibile il significato, il senso dei preliminari. Ma l’eccitazione aveva prevalso sui calcoli logici della previsione.

“Prendo questa”, dissi precipitosamente.

Il Venditore-Gatto sorrise con i denti di colore marrone.

“E’ una scelta perfetta”, disse. “E’ un’anitra polacca, si ricordi”.

Mormorai un grazie distratto e precipitoso.

Pagai e mi allontanai.

Avevo la mia anitra.

Il Venditore-Gatto non ce l’aveva fatta con il Compratore-Topo.

Ero stato io il più furbo, il più astuto.

Il Topo era sfuggito alle grinfie del Gatto. Aveva sovvertito pronostici e previsioni. Forse aveva inaugurato una nuova realtà di rapporto di legami. Comportamenti. Una realtà dalla quale potevano forse derivare cambiamenti fondamentali, decisivi.

Ma più importante di ogni altra considerazione mi parve quella per cui ero in possesso della mia anitra. Un’anitra polacca e bisognava ora provvedere alla sua sistemazione.

Non è senza dubbio un’anitra di città. Pensai.

E poi che farebbe un’anitra in città? Certo a Poggiofranco c’era il grande giardino condominiale ma proprio per la sua estensione mi pareva che la mia anitra potesse smarrirsi, perdersi tra un’aiuola e l’altra, rimanere coinvolta dalle persone che talvolta affollava il giardino.

Meglio Palese. Sicuramente. A Palese l’anitra avrebbe goduto di maggiore libertà che non a Poggiofranco. Avrebbe potuto fiutare il cambiamento dei venti, da maestrale a levante, da scirocco a tramontana e ritrovare i sentieri e gli itinerari dei suoi viaggi. A Palese.

E così fu. Per alcuni giorni l’anitra dal collo blu e giallo rimase in casa. Non sapevo come e dove collocarla. Del resto mi pareva importante trovare il modo più idoneo per farla sentire a suo agio. E che l’anitra avvertisse tutto questo lo si capiva dal fatto che rimaneva tranquilla nella cosciente attesa delle decisioni che la riguardavano.

Venne il momento della scelta.

E fu per caso.

Il maestrale spirava gagliardo increspando il mare sin dall’orizzonte. Le spume giungevano a riva sempre più impetuose con gli alti spruzzi che in breve cominciarono a superare l’altezza dei msasi situati ai piedi della banchina del porto.

Il vento teso scompigliava le chiome delle tamerici all’ingresso della villa e scompigliava le verdi foglie dei giovani pioppi.

Fu allora che l’anitra polacca, situata ai margini del muro sul quale troneggiava un ampio vaso di cemento, cemento, cominciò a battere le ali.

Volteggiarono dapprima lentamente come se si trattasse di un tentativo di volo, di una prova, di un esperimento. Poi sempre più veloci sulla scia e lungo i misteriosi ed invisibili sentieri del vento.

L’anitra polacca con il moto delle sue grandi ali che ritrovavano le folate di vento, pareva volesse coniugare, offrire insieme, eleganza e vitalità intensa. A Guardarla si rimaneva affascinati. Talvolta si fermava d’improvviso come se fosse in attesa di chissà quale evento.

Talaltra, il fruscio dei rami del pioppo annunciava un refolo più impetuoso degli altri ed era il segnale, l’avviso che si poteva partire per un altro volo, per un’altra destinazione.

L’eleganza delle linee, il fascino dell’insieme, l’intensità dello sguardo, tutto il corpo proteso nell’ansia di librarsi in volo, costituivano un insieme straordinario che non mi stancavo di osservare e di considerare.

Come se l’anitra capisse tutto questo, accadeva allora che si volgesse, ora verso una direzione, ora verso un’altra. E non si trattava solo di assecondare i capricci del vento, l’instabile ed irrequieto turbinio del levante che spazzava foschie e nebbioline sul mare, quanto di affermare una chiara volontà di scelta, una capacità innata di giudizio per cui gli itinerari da affrontare appartenevano anch’essi ad un disegno preciso, ad un progetto chiaro. Il disegno ed il piano per cui avevo scelto l’anitra polacca e non altre delle sue compagne.

Le settimane ed i mesi passarono rapidamente quell’estate che vissi più intensamente nel rapporto che avevo instaurato con la mi anitra.

Mi sorprendevo nei momenti più impensati ad andare con la mente a lei. Che cosa stava facendo in quel momento? Quale direzione avrebbe assunto con i suoi capricci del vento?

Un giorno accettai la sfida che mi era parsa di leggere nel suo sguardo. La stagione dei bagni e del sole cocente era ormai passata. Erano cominciate le piogge de dopo estate e qualche pioggia era accompagnata da tuoni e fusimi.

Lo spettacolo dei fulmini sul mare mi affascinava e restavo a lungo dietro la persiana ad attendere che all’orizzonte marino si disegnassero o contorni delle folgori in tutta la loro ricchezza espressiva dei segni.

Cadevano dal cielo i fulmini.

Rumoreggiavano i tuoni, ora lontani, ora vicini secondo l’andamento del temporale.

E pioveva a dirotto.

L’anitra era rimasta al suo posto. Non si era mossa nonostante l’acquazzone, in un gesto quasi di sfida al maltempo, una scommessa totale con se stessa.

Di tanto in tanto le ali accennavano qualche avvio di moto. Ma forse per la pioggia, forse per una scelta precisa e decisa l’anitra rimaneva ferma, laddove si trovava.

Per un istante temetti  con preoccupazione che l’anitra avesse sofferto danni per la pioggia battente e l’umido. Le ali, infatti, avevano solo qualche sobbalzo.

Ma la mia preoccupata ansia fu fugata dallo sguardo che era sempre intenso e dall’occhio vivo. Il colore delle piume sul corpo era sempre vivido.

La mia anitra non mi avrebbe lasciato.

Vennero altre intemperie. Ma ormai era sicuro che nulla sarebbe accaduto.

Con la mia anitra polacca ho compiuto straordinari e fascinosi viaggi lungo le rotte che solo gli uccelli conoscono.

Abbiamo viaggiato dai boschi della Polonia sino ai monti Tatra. Ci siamo riposati sui laghi della Croazia. Quindi, dopo aver attraversato l’Adriatico, abbiamo sostato suilla laguna di Lesina e Varano. Ancora una tappa verso Corfù e le altre isole greche. Da un’isola all’altra sino a Creta e poi il grande balzo sino alle montagne del Libano.

Quante avventure. Quanti incontri e quanti pericoli affrontati.

L’anitra polacca dal collo lungo e dalle grani ali è di nuovo a Palese. E’ tornata. Forse, non si è mai mossa. Bisognerebbe magari chiederglielo. Ma io non oso. Potrebbe offendersi. Allora, meglio di no, facendo finta di niente.

L’anitra polacca è pronta anche stasera per un nuovo volo. Lo so. Perché mi ha sorriso. Ma non bisogna dirlo.

Ieri è venuto a trovarmi il nipotino Michele.

“Che stai facendo, nonno?” mi ha chiesto.

“Sto guardando l’anitra polacca che vola”.

“Ma è di legno”.

“Lo so”.